Raccontare del mio amore per Micah è anche e sopratutto raccontare di come ho conosciuto questo artista. Di come ne sono rimasto folgorato. Di come è entrato nelle mie viscere.
Erano un paio di anni fa, avevo letto una recensione positiva del suo ultimo disco (Micah P. Hinson And The Opera Circuit) e ne avevo ascoltato qualche canzone. Gran voce, ma musica troppo country per i miei gusti. Accettabile. Niente di più. Poi vedo che suona al Circolo degli Artisti qui a Roma, come spalla a tali Califone, altro gruppo osannato di cui avevo ascoltato qualcosa senza troppo entusiasmo.
Ma ero nel periodo di massima attività concertistica, mi bastava che suonasse qualcuno di cui avevo anche lontanamente sentito parlare bene che mi fiondavo al concerto, sia perché pagando il biglietto mi sentivo meno in colpa di tutta la musica gratis che ascoltavo sia, soprattutto, perché cercavo (oddio, lo cerco tuttora) di realizzare un piccolo desiderio. Vedere i futuri U2, i futuri Cure, i futuri Metallica, Depeche Mode, Muse, insomma i futuri idoli delle masse quando non erano nessuno. Quando suonavano al Circolo per 10 euro davanti a massimo 100 persone.
Questo per darmi la soddisfazione di dire, quando i miei figli / nipoti / amici mi chiederanno di andare a vedere i Pincopallo all’Olimpico per minimo 80 euro, che no, io li ho già visti quando suonavano davanti a massimo 100 persone. Per 10 euro. Ed ho pure il loro primo cd autografato con dedica personale (seeeeeeee!!!). Ed insomma vuoi mettere averli a 5 metri? vederli in faccia? l’acustica del Circolo contro quella dell’Olimpico? Insomma, vado ai concerti anche per questo.
Per Micah era diverso. Curiosità. Semplice curiosità. Sale sul palco. E’ un campagnolo con camicione di flanella a quadri. Occhialoni da Nerd. Mi piace un sacco. Con lui un altro inflanellato. A vederli, in due non faranno 30 anni.
Poi Micah apre la bocca e canta. Anche a me si apre la bocca. O meglio, mi cade la mascella. Passo il concerto con un sorriso stampato in faccia che neanche Joker. Quelle poche volte che mi guardo intorno vedo la mia stessa espressione stampata sulla faccia di tutti. Silenzio irreale. Solo la sua voce da cinquantenne guadagnata scalando montagne di Malboro Rosse. Peccato ne abbia una ventina (di anni). Finisce la magia, salgono i Califone. Cinque minuti e me ne vado. Voglio sapere tutto su questo mio nuovo dio.
Scopro che è di Abilene, Texas. Scopro che il suo primo album è anche più bello di quello che ho ascoltato io. Lo ascolto. Scopro che non sono è più bello di quello successivo, di quello che avevo ascoltato, ma è molto più bello del 90% dei dischi che ho sentito finora. Scopro che l’ultima canzone dell’album, “The Day Texas Sank To The Bottom Of The Sea” basterebbe da sola a tenermi compagnia per settimane. Scopro che c’è una storia dietro quest’album. Questo “Micah P. Hinson And The Gospel Of Progress”.
E’ una banale storia d’amore. Lui vede lei. Lui è uno studente. Lei una modella. Colpo di fulmine, amore, sesso, droga, dipendenza, depressione, fine dei soldi, fine dell’amore, fine della storia. Rimane lui e un baratro. Micah guarda il baratro e si butta. Si butta a scrivere canzoni. E quelle canzoni sono stupende, sono poesie, sono disperate e bellissime. Poi Micah si riprende. Fa altri album, trova la tranquillità, una moglie, la stabilità. Ma la bellezza di quell’abum non la raggiunge più. Ma non importa. Il suo capolavoro l’ha già scritto.
Micah non sarà uno di quegli artisti di cui mi vanterò davanti ai miei Figli / Nipoti / amici di aver visto quando non era nessuno e suonava per dieci euro al Circolo degli Artisti davanti a neanche cento persone.
Ma va bene cosi, perché Micah è entrato nelle mie viscere e me le può strizzare quando vuole.